L’avvento del digitale mi ha portato a ricercare macchine più leggere contando appunto sulla tecnologia e nonostante alcune belle esperienze – con una Sony Mavica 400CD che registrava le foto su CD-ROM ho fotografato la Val Trebbia da un autogiro quando ancora non c’erano i droni – tutto era troppo complicato. Mi ricordo una settimana New York con uno zaino fotografico di svariati kg di attrezzatura che mi ha regalato belle foto, ma anche un notevole mal di schiena. Fino al 2012, quando durante un workshop ho scoperto il mondo mirrorless. Una settimana dopo ero felicemente in compagnia di una Olympus E-P1 con 17mm f/2,8 (35mm equivalente) e di una Fuji X-Pro1 con 35mmm f/1,4 (50mm equivalente) con le quali, durante un viaggio in Bretagna e Normandia, ho fatto alcune delle fotografie a cui sono più affezionata perché sono consapevole di averle potute fare perché è stato… un attimo: mi sono girata e ho visto una coppia di sposi e due bambini con un atteggiamento molto tenero che li guardavano; ero in mezzo ad una rotonda, a rischio della vita, e quelle persone sulla scalinata con alle spalle l’avanzare del temporale sono entrate nel mirino della Fuji con la velocità che poi mi ha permesso di evitare di essere investita. Le avrei fatte lo stesso con una reflex? Probabilmente sì, ma la possibilità di tenere in mano una macchina per ore senza sentirne il peso e una maneggevolezza che consente di scattare anche da punti di vista impensati e faticosi – a terra, con le braccia tese in alto, per esempio – sono un valido supporto per scatti forse meno banali. Altro punto a favore: la possibilità di passare inosservati. Mi ricordo che quando ho acquistato la X-Pro1 - in una mattina ho venduto la reflex e l’obiettivo top che avevo fino ad allora – mi sono seduta in un bar a provare qualche scatto mentre aspettavo un’amica e suscitando la curiosità del cameriere che accennando alla mia Fuji mi chiese: “Ma funziona?” e al quale riposi con un sorriso: “Mah, non so, l’ho trovata in soffitta…” mentre lui annuiva con uno sguardo di compatimento. Avrà pensato ad una quarantenne un po’ eccentrica che ancora fotografava a pellicola. Sorrido sempre quando ci penso. Da allora il mio parco macchine e ottiche è variato, ma quello che ho notato è che di pari passo si è evoluta la mia fotografia, è diventata più consapevole, fatta anche di ricerca, perché è vero quello che da sempre consigliano i più autorevoli testi: quel che conta è scattare, scattare tanto, tutti i giorni. Per chi non lo fa di mestiere non è facile, ma con le mirrorless è stato subito amore perché hanno dimensioni ed ergonomia che mi consentono di mettere la macchina nella borsa che ho con me tutti i giorni e avendo anche molto spesso documenti e notebook avere qualcosa di leggero è impagabile. Da allora seguo quel consiglio, fotografo tutti i giorni, e spesso avere la mia Fuji con me ha significato poter fermarmi a guardare nel mirino con attenzione e riflessione quello che prima vedevo solo con gli occhi. Perché guardare è diverso dal solo vedere. Un esempio di questo diverso approccio alla fotografia è un piccolo servizio dedicato al Cimitero Militare Indiano di Forlì che ora si è trasformato in un progetto vero e proprio. Un anno fa ero in quella città per lavoro quando dall’auto ho visto un monumento particolare in un piccolo cimitero con tante croci bianche perfettamente allineate in un prato all’inglese a dir poco perfetto. Non ne conoscevo l'esistenza e l’ho visitato con la mia X-T1 e un 35mm f/1,4 scoprendo un pezzo di storia forse non molto conosciuta, la storia di questi ragazzi venuti da un mondo lontano a combattere in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale perché appartenevano all’allora Impero Britannico. Erano ragazzi che, come disse Winston Churchill, “indossavano il turbante”. Uno di loro aveva solo 16 anni, veramente pochi per morire in ogni caso, ma per andare in guerra lo sono ancora meno. Avere con me la macchina fotografica mi ha permesso di scattare tanto da costruire il primo pezzo di una storia che voglio raccontare. Per avere questa possibilità ogni giorno la mia scelta è caduta su Fuji, ma ricordo la notevole qualità di Olympus e credo che ormai ogni brand mirrorless in commercio possa soddisfare esigenze anche di fotografi molto evoluti. Di Fuji mi ha intrigato il tipo di innovazione tecnologica fortemente creativa: togliere il filtro passa basso per avere una maggior nitidezza e per evitare il conseguente effetto moiré utilizzare un sensore costruito non più secondo lo schema di Bayer, dove ad ogni pixel corrisponde un singolo colore R, G o B secondo uno schema ricorrente, ma sulla base di una matrice casuale e – a quanto si dice - ispirato alla grana della pellicola analogica. Così dopo la X-Pro1 ho avuto una X-E1, della quale tuttavia non ho apprezzato il mirino posto di lato, fino alle attuali X-T1 e X-M1. L’X-M1 con il pancake 27mm f/2,8 (40mm equivalente) mi fornisce un mix di dimensioni ridotte, leggerezza e qualità davvero irrinunciabile in mountain-bike o nello zaino durante il trekking in montagna, oltre a darmi una sensazione molto simile alla Petri con il 45mm a sua volta molto prossimo alla visione dell’occhio umano che è di 43mm. Spesso uso questo stesso set per scatti urbani / street photography in alternativa all’X-T1 con il 23mm f/2 (35mm equivalente), mentre per foto di viaggio spesso all’X-T1 abbino il 18-135mm f/ (27-200mm equivalente) che è un obiettivo tuttofare di grande qualità. Per foto più commerciali, quelle che nel mio piccolo mi hanno dato anche gratificazioni economiche – restaurant e food photography - uso invece l’obiettivo che chiamo “The Prince”, ovvero il 16-55mm f/2,8 che non mi ha mai fatto rimpiangere “The King”, il 24-70 mm f/2,8 della Nikon, oppure un 35mm f/1,4. Entrambi hanno una qualità assolutamente superba. Il 35 mm è tuttavia un’ottica molto incisa quindi raramente la uso per i ritratti, meglio il suo “fratellino”, il 35mm f/2,8, o il 56mm f/2; ogni tanto mi diverto a montare qualche ottica vintage, soprattutto i russi Jupiter che hanno la caratteristica di essere molto morbidi e con i quali occorre fare attenzione ai flare, a volte anche piacevoli, douti al fatto che non hanno un buon trattamento antiriflesso. Concludo ringraziando i tecnici Fuji, anche se tutto il mondo mirrorless meriterebbe lo stesso, perché quando dalle pellicole sono passata alla diapositive usavo le Velvia e quei colori li ho ancora ben impressi nella mente: ora il mood degli anni dell’analogico è proiettato nel futuro grazie ad un uso sapiente della tecnologia. Chapeau!
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