Cari amici di Promirrorless.it è per me un piacere condividere con voi l’intervista ad un fotografo italiano davvero speciale, Alberto Bregani. Alberto Bregani è un fotografo molto conosciuto soprattutto per le sue splendide fotografie di montagna. Durante la nostra ultima chiacchierata mi è tornato più volte alla mente Michael Kenna, non tanto perché le foto di Alberto siano uguali alle foto di Kenna. Alberto infatti potremmo definirlo un fotografo "realista", mentre Kenna ricerca soprattutto delle “suggestioni” visive, quanto per la loro personalità. La loro fotografia racconta perfettamente il loro mondo e la loro visione. Inoltre per entrambe il fattore “tempo” assume un ruolo centrale nel modo di intendere la fotografia. Le fotografie di Alberto Bregani sono infatti immagini vere, sincere e dirette. Non c’è contraffazione, né manipolazione. Le montagne di Bregani sono autentiche e appaiono esattamente come sono. Guardando con attenzione le immagini di Bregani ci si rende conto di come lui sappia cogliere la poesia nella prosa. Il linguaggio fotografico di Alberto è il bianco e nero, attraverso cui riesce a cogliere l’essenza del soggetto. Niente scenografia, niente spettacolo, immagini da guardare con calma, in silenzio. Foto cariche di rispetto per i soggetti preferiti da Alberto, la natura e la montagna. Vi consiglio vivamente di leggere questa "corposa" intervista e di guardare il video di Alberto... Ci tenevo molto ad ospitare Alberto Bregani sul nostro sito. Mai come in questo periodo, infatti, la fotografia ha bisogno di persone come lui. Troppo spesso oggi si cerca il consenso. Troppo spesso si “spettacolarizzano” le foto per prendere dei “like” sulla propria pagina di Facebook. Troppo spesso si vive la fotografia con superficialità. Abbiamo bisogno di tornare al senso più profondo della fotografia e al rispetto vero dei soggetti che fotografiamo e Alberto ci aiuta a farlo… Per molto tempo Alberto Bregani ha fotografato in analogico. Recentemente ha iniziato a fotografare anche in digitale con una fotocamera mirrorless, la Sigma Sd Quattro. Da fan del Foveon (il sensore montato sulle fotocamere Sigma), ho capito subito le ragioni della sua scelta. A mio parere, infatti, nessun altro sensore (grande o piccolo che sia), è in grado di raggiungere la profondità colore e le sfumature tonali ottenibili con i sensori Foveon (leggi l'articolo dedicato alla Sigma SD Quattro). In effetti, a guardare i suoi ultimi lavori, la qualità delle foto di Alberto Bregani è rimasta quella di sempre, al punto che Sigma gli ha chiesto di diventare “Sigma Ambassador.” Mi incuriosiva sapere da Alberto cosa l’avesse spinto a fare il grande “salto” e come un fotografo “puro”, abituato a fotocamere manuali ed analogiche, si fosse trovato con un sistema digitale e per di più mirrorless, privo quindi del mirino ottico... Direi che non resta che chiederlo direttamente ad Alberto. Alberto, prima di tutto permettimi di ringraziarti a nome di tutti i lettori di Promirrorless.it per il tempo che ci dedichi. Probabilmente molti nostri amici già ti conosceranno e avranno visto i tuoi lavori. Ti definisci un fotografo di montagna. Ci puoi raccontare come è nata la tua passione per la montagna e per la fotografia? Grazie a te innanzitutto per l’ospitalità, Damiano; è sempre un piacere poter parlare di montagna e di fotografia. Riguardo alle origini di questa accoppiata: per quanto mi riguarda la mia infanzia è stata certamente fondamentale, se vista in prospettiva rispetto a ciò che fotografo oggi. Quanto vissuto ha certamente creato le basi di quello che è il mio fotografare. È successo a me ma sono cerrto sarà successo ad altri. Da bambini e adolescenti assorbiamo come spugne emozioni e suggestioni delle quali, portata e importanza, ne saremo veramente consapevoli nel momento in cui ci scopriremo maturi quanto basta per farle ritornare a galla. Potremo così comprenderle, interpretarle, rifuggirle o accettarle, e farne, nel mio specifico caso, il soggetto principale della nostra fotografia. La mia infanzia, la mia adolescenza, la mia maturità sono state circondate da boschi, torrenti e montagne. Sono cresciuto a Cortina d'Ampezzo, ho girato l'Europa come atleta di sci alpino, ho continuato a vivere di montagna facendo il maestro di sci per molti anni anni, dalle Dolomiti alle Alpi francesi. Lo racconto sempre anche nelle mie conferenze: la montagna è dentro di me, ci ho vissuto, camminato in mezzo, l'ho salita, la vivo tuttora, ne ho scritto, la racconto. Ne conosco perfettamente umori e carattere. La montagna mi ha formato. Montagna e paesaggio sono dunque il mio essere. Un punto naturale di arrivo più che una scelta. Ho seguito passo passo mio padre, alpinista, scrittore e documentarista di montagna, su chilometri di sentieri, fin dai miei primi anni di vita. Non avrei potuto raccontare d'altro. Quando qualcuno osserva e commenta i miei scatti, rimanendone io ogni volta stupito e onorato allo stesso tempo, capisco che il mio destino fotografico non avrebbe potuto essere diverso. Questo dono è forse l'eredità vera e più grande che i miei splendidi genitori avevano riservato per me. Un dono rimasto nascosto per molto tempo, fino a quando, scomparso prematuramente papà nel 1987, non ho riaperto (avuto il coraggio di riaprire…) una borsa con tutta la sua attrezzatura e tirato fuori la macchina fotografica che c’era nel mezzo, per tenerla in mano per un po’, girare quella manovella in alto a destra e schiacciare il pulsante per sentirne il suono. Era una Canon A1; sul dorso un pezzettino della confezione di una Kodak bianco e nero. Non c’era dentro alcun rullino. Ritenni fosse un invito a continuare. Ne acquistai uno uguale e iniziai a scattare. Era il 1991. Non ho più smesso... Recentemente durante un'intervista, ho avuto modo di parlare con Michael Kenna, il quale mi ha detto che per lui il “tempo” e la “connessione” con il soggetto sono la chiave essenziale della sua fotografia. Ti trovi d’accordo? Con Kenna mi trovo d’accordo a priori, qualsiasi cosa dica :-) Battute a parte, in fotografia ho due fondamentali riferimenti: Michael Kenna e Vittorio Sella. Kenna per l’approccio e la sua idea del fattore “tempo”, e Sella per l’eccezionale, unica capacità di visione e rappresentazione che ha avuto della Montagna. Non posso quindi che concordare con Kenna: tempo e spazio, insieme alla scelta e ricerca di un proprio metodo, sono per me elementi basilari proprio per raggiungere quella connessione con il soggetto alla quale fa riferimento. La fotografia di Montagna -e di paesaggio in generale - esige, richiede, reclama grande disponibilità di tempo. Il tempo è necessario per dare forma allo spazio. “Dopo tutto, come si può guardare un albero, una pietra, un cielo chiaro del Nord senza fare nostro almeno un po' del loro modo di essere, un po' del loro Tempo? “ (Robert Adams, La bellezza in fotografia, Ed. Bollati Boringhieri.). E a proposito di approccio e metodo se posso, consiglierei la visione del video di Kenna che ritengo uno dei più belli e suggestivi mai visti, oltre che utili a comprendere il suo modo di lavorare. Girato nel corso della realizzazione del progetto “Hokkaido”, è un video che negli anni guardo e riguardo ancora, cogliendone ogni volta nuove sfumature; forse anche perchè in questi anni io stesso sono cambiato, cresciuto e capace di coglierne di nuove. Hai accennato alla ricerca di un “metodo”. Puoi dirci di più? Si certo: ma senza farla più grande di quella che è. Direi più che altro che per “metodo” intendo una certa consapevolezza del proprio fotografare; il sapere sempre perchè e come fotograferò cosa, per dire che cosa. Riguarda la concentrazione, quella connessione di cui sopra. Il mio metodo, che poi non è altro che una serie di regole che mi sono dato, consiste nel fatto che qualunque sia il progetto che devo portare a casa utilizzerò sempre una o al massimo due obiettivi. Va da sé che prima va stabilito il tema, valutato l’ambiente e il soggetto, la “pasta” (mood) con la quale vorrò rendere un certo tipo di racconto. In base a tutto ciò sceglierò la lente e poi utilizzerò sempre quella. Insieme a un’altra nei suoi dintorni per eventuali particolari situazioni. Ad esempio per il progetto sulle Dolomiti di Brenta (quattro anni) ho utilizzato sempre una portabilissima Rolleiflex, soprattutto in ferrate in alta quota, quindi 6x6 con il 75mm fisso; e quando ero in situazioni più “semplici” che non in parete, ho usato la mia Hasselblad 501c con l’80 planar ovvero la stessa focale della Rolleiflex, e il 150 Sonnar per i particolari. Direi che in quattro anni di progetto non ho mai sentito la mancanza di una terza focale. Ho iniziato a ragionare e a vedere soprattutto con il 75 mm e ho portato a casa esattamente ciò che volevo e come lo volevo. Un secondo esempio: per il progetto “Solo Il Vento“ sulla Grande Guerra che aveva come committente la Provincia Autonoma di Trento, ho scelto e utilizzato esclusivamente una Fuji GSW690III con lente fissa un 90mm f/3.5. Solo per alcune panoramiche ho usato una Linhof Technorama 6x12. Ma per il 90% del progetto è stata “una macchina, una lente”. Due anni di lavoro andati perfettamente. Alberto, molto presente sui social avendo trascorsi importanti nella comunicazione digitale, cura molto l’aspetto della condivisione con coloro che lo seguono. Per ogni progetto realizza dei brevi video che poi pubblica nel blog e su FB, per portare virtualmente con sé tutti gli appassionati di fotografia e montagna, e per permettere loro di vivere per quanto possibile le sue emozioni e far vedere esattamente come lavora sui luoghi degli scatti. E così è stato anche per SoloilVento, il progetto sulla Grande Guerra menzionato nell’intervista realizzato a pellicola con la fuji 6c9. Vi proponiamo il video di riassunto del progetto che presenta la conferenza che Alberto porta in giro per l’Italia con successo dal 2014. Altri video sono disponibili nel suo canale Youtube Ciò che dico allora spesso - e chi mi segue o partecipa ai miei workshop lo sa - è “ … che sia un giorno, un mese, un anno, provate a scattare sempre con una sola macchina e una sola lente; aggiungerà man mano concentrazione al vostro agire, valore alla vostra ispirazione, confidenza al vostro fotografare. Sarete sempre più in simbiosi con la vostra macchina che gradualmente diverrà il prolungamento del vostro braccio, del vostro occhio, del vostro “vedere”. Alla fine, sarete solamente voi e la vostra visione. Non abbiate paura di farlo. La ricerca isterica di altre lenti al momento dello scatto, nella speranza che qualcosa cambi o possa apparire migliore è pura illusione. Il risultato sarà solamente il distacco dall’essenza del soggetto e da ciò che questo vi stava raccontando. Un momento, forse unico, perduto per sempre. E se quel momento non dovesse arrivare, sappiate attendere. Il tempo dell'attesa è il tempo della scoperta”. Va da sé che non sto parlando di una fotografia che necessita per forza di più tipi di lenti ( es. safari fotografico, per dirne una). Io mi riferisco a quella fotografia che necessiti di un racconto, di un filo rosso da seguire e da far seguire, di una storia. L’utilizzo di un solo tipo di ottica aiuterà anche l’osservatore ad abituarsi a un certo tipo di prospettiva, visione, inquadratura e ad entrare meglio lui stesso nel racconto che gli viene proposto. Nelle tue foto apprezzo molto il senso di realismo dei tuoi soggetti. Ho notato che in molti scatti cerchi la relazione tra cielo e terra. Quando ti approcci al soggetto, quali sono gli elementi che cerchi di trasmettere di più? Nel corso degli anni ho maturato una visione chiara e definita di ciò che voglio dire della Montagna; e l’ho concentrata recentemente nella frase ”Fotografo la montagna che esiste, Così come esiste”. È un concetto abbastanza semplice ma che dice tutto. Nella mia fotografia non c’è mediazione, non ci sono filtri, non c’è intromissione di elementi esterni, di fronzoli post-produzione. C’è solo l’intermediazione di una mia visione ben precisa della montagna ispirata e influenzata dai miei studi filosofici, in particolare dal Sublime del trattato di Burke del 1757 fino al cuore del Romanticismo ottocentesco sia filosofico - di Kant, Schopenhauer e loro contemporanei - che pittorico con William Turner e Caspar David Friedrich. Quel Sublime di una Natura sempre maestosa, sempre potenzialmente distruttrice alla quale tutti noi dobbiamo massimo rispetto; come un orrido che atterrisce ma attrae allo stesso tempo, in una sorta di gioco di magnifico stupore e terrore che vede l’Uomo in bilico tra il sopravvivere o l’essere sopraffatto in qualunque momento dalla forza annientatrice di questa Natura. Cerco quindi di non mentire all’osservatore, al fruitore della mia immagine. Faccio il possibile affinchè la mia montagna arrivi per quella che è, seppure attraverso la mia visione e ispirazione. Ciò che vedo io potrai vederlo anche tu. E riguardo a cielo e terra, è vero ciò che dici: sono i due elementi portanti della mia fotografia. Il cielo, in particolar modo, è sempre un protagonista, non una semplice spalla del soggetto; in quanto tale va gestito con la stessa importanza di ciò che c’è sotto o intorno. Deve avere un senso, non deve essere mero riempitivo. Deve essere in armonia con il soggetto - ove non sia soggetto lui stesso. Per questo non fotografo mai senza nuvole (detto che senza nuvole in bianco e nero non si scatta mai… in montagna); ed è per questo che le nuvole per me sono altrettanto fondamentali. Sono il sale nell’acqua della pasta, il condimento perfetto per ogni piatto, sono ciò che dà sapore al tutto. Con il passare degli anni, vista la mia fortuna nel trovare sempre le nuvole giuste al momento giusto, mi sono convinto che le nuvole sappiano di questa mia passione e amore per loro; e si facciano trovare quando serve dove serve. Almeno mi piace pensarlo. Forse è per questo mi chiamano l’uomo delle nuvole. E’ evidente che il tuo linguaggio fotografico è il bianco e nero. C’è un motivo particolare? Il bianco e nero me lo sono ritrovato tra le mani, come detto all’inizio. Ho iniziato a scattare senza aver consapevolezza della sua forza espressiva; era un modo per seguire le tracce di mio padre. Ma con il tempo ho pian piano compreso che poteva essere il mio linguaggio, il mio modo di pensare e raccontare. Fotografare il paesaggio non è semplice. È fondamentale andare oltre ciò che si vede, tradurre in immagini ciò che si sente, sottolinearlo con sfumature, drammatizzarlo quando serve con inquadrature potenti, renderlo suggestivo con toni morbidi. E il bianco e nero è il miglior compagno per esprimere tutto questo; riesco meglio a scavare, a modellare, a esprimere una visione personale, andando oltre “l’ovvio” del colore, nel senso di quello che appare chiaro e palese a tutti. Dichiarato alla fonte. Quel colore che hai costantemente davanti agli occhi. Fotografare in bianconero significa lavorare molto più approfonditamente sul dualismo luci-ombre, un binomio che fa parte del paesaggio, della montagna, dei boschi, dei torrenti che attraversano i canaloni, dei riflessi della neve che si scioglie. Non esiste montagna che non abbia nuvola e raggio di sole insieme. Luci e ombre sono elementi da modellare, come quando si disegna a carboncino su un foglio. Il bianco e nero è un pensiero preciso, Non è mera desaturazione, o un deprimente ripiego. E’ un viaggio silenzioso fatto di chiaroscuri, che si sceglie di intraprendere e che ti segna per sempre. Come è successo a me. Tu hai sempre fotografato a pellicola negativa bianco e nero, utilizzando macchine medio o grande formato. Ci puoi raccontare come sei arrivato ad usare attrezzature mirrorless e in particolare Sigma? Mi dicevi che in questo momento stai utilizzando la nuova Sigma Sd Quattro… Quando mi chiedono perché io, fotografo analogico di montagna, dal puro bianco e nero dai sali d’argento, abbia scelto di utilizzare anche il digitale, rispondo che ho fatto questo passo solo e solamente perché, dopo mille peregrinazioni, sono finalmente riuscito a trovare una macchina che non avesse nulla a che vedere con il "pseudo bianco e nero" delle ammiraglie digitalone tutto muscoli e brand di questi ultimi anni. Una macchina che invece mi ha permesso di restare là da dove provenivo, ovvero dalla qualità assoluta del bianco e nero del grande e medio formato, come giustamente hai ricordato, e dal mondo della riflessione e dell’attesa, quella dimensione nella quale prima viene il pensiero e poi, quando serve, quando hai veramente qualcosa da dire, lo scatto. La macchina alla quale mi riferisco era una SIGMA, in particolare una dp Quattro, dotata anche’essa del superlativo sensore X3 Foveon la cui inarrivabile qualità scoprirò poi a posteriori. Tengo a dire che da buon “orso analogico” quale ero e quale tuttora sono, ero ben rintanato nella mia confort zone costituita da una Hasselblad per il 6x6, una FujiGSW per il 6x9 e una Linhof Technorama per il 6x12; avevo perfetta conoscenza delle mie cose, di tutto ciò che mi serviva (ben poco, comunque) e stop. Nessuna bramosia né tantomeno necessità di sapere dell’ultimo prodotto sfornato dall’innovazione digitale. È stato quindi Domenico, un mio caro amico siciliano, che dopo aver ascoltato e sopportato le mie lamentele riguardo la difficoltà di trovare un bianco e nero digitale che potesse anche solo avvicinarsi a uno analogico per un mio progetto veloce, mi ha detto “maa.. hai mai provato una Sigma dp?“. E fu così che iniziammo a parlarne, e fu così che mi convinse a cercarne e acquistarne una pochi giorni dopo. Fu così che iniziai a scattare con SIGMA, a conoscere meglio il sensore, la resa, le potenzialità; e poi conobbi Sigma italia, loro le mie fotografie, il mio modo di lavorare… e il resto è storia recente. Fu così… che ora ho la mia prima maccchina digitale a pellicola, come la chiamo io (e come ho letto nella tua recente recensione l'hai definita anche tu). E sono riuscito a fare quel salto senza particolari problemi; anzi mantenendo la mia cifra e identità. Utilizzare fotocamere analogiche e manuali comporta una certa ritualità di scatto. Inoltre si è costretti a rallentare e a riflettere su ciò che si vuole fotografare. L’utilizzo di attrezzature digitali, in particolare della Sigma Sd Quattro ha cambiato il tuo approccio al soggetto? Senti di aver perso qualcosa…? No, non ha cambiato nulla. Le caratteristiche e le particolarità della Sigma SD Quattro - qualcuno li chiamerebbe difetti - ti permettono e ti portano a pensare, ragionare, lavorare come con una medio formato analogica. Qui si parla di qualità nella resa finale, ma anche di qualità nell'approccio allo scatto. Tutt’altra filosofia. La sd è la celebrazione di un cerimoniale da grande formato. Ha poche ed essenziali funzioni. Ma tutte utili, a portata di occhio e di “finger” mentre si lavora. Non ha complicate procedure di impostazioni, non ha settaggi, non ha fantasiose o estreme personalizzazioni, non ha libretti di istruzioni grandi come un’enciclopedia a fascicoli settimanali. Fronzoli zero, tutto succo. Pura qualità da porre delicatamente su un treppiede affinché le potenzialità possano esprimersi al massimo. Certo, puoi anche fotografare a mano libera, come ho fatto recentemente; ma sempre con la massima fermezza di polso e di passo, e con condizioni di luce favorevoli. La sd non ha cambiato una virgola del mio modus operandi. In genere che focali utilizzi? Sulla Sigma Sd Quattro che lenti sei solito utilizzare? Pur essendo Ambassador Sigma, il che mi dà la possibilità di accedere a tutto il parco ottiche, rimango con il mio metodo di lavoro: una, al massimo due lenti per volta. Non fosse anche solo per il fatto che dovessi portarne con me anche di più, poi la schiena le sente, e le gambe anche: Facile dal divano dire “eddai, portati via tre o quattro lenti che almeno non avrai problemi.” :-) Ma ogni etto in montagna va dosato e calibrato, perchè garantisco che si sente ad ogni passo. Nello specifico, per la qualità degli zoom che ho avuto modo di apprezzare in questi mesi, ho due abbinamenti base: il Sigma 18-35mm f1.8 più il Sigma 50mm f1.4 oppure il 24mm f1.4 insieme al Sigma 50-100mm f1.8. Scelgo poi il kit a seconda dell’ambiente dove devo andare a fotografare, se devo arrampicare o solo camminare etc, se devo rimanere in quota per giorni o se per una sessione di un giorno lungo un torrente: Se quindi mi serve lunghezza scelgo il secondo kit sapendo comunque di poter contare nel caso su un’ottica più larga come il 24mm. Se invece mi serve ampiezza esco con il primo, avendo comunque all’occorrenza un ottica un po’ più lunga come il 50mm. Poi ci aggiungo 3 batterie, un trreppiedi, il set di filtri LEE con gli adattatori per le tre lenti (set comprende tre ND Grad soft e tre hard 03/06/09, il pola, tre ND 03/09/1.8, un big stopper da 10 stop). That’s it. Questo il mio corredo fotografico in the backpack che è un fantastico Clikelite Contrejour 40lt che ho da quattro anni ormai, che mi permette di avere tutto questo nello zaino e stare anche in giro fino a tre giorni per rifugi. Molti fotografi sono restii ad utilizzare fotocamere mirrorless perché hanno un mirino elettronico. Tu che vieni da fotocamere medio e grande formato, come ti sei trovato nell’utilizzare il mirino elettronico? Hai avuto problemi in condizione di forte luminosità? Penso ad esempio in montagna quando c’è neve o fondali ghiaiosi chiari… La mia fortuna è l’essere arrivato al mirino elettronico direttamente dalla pellicola. Ho sentito si parlare di varie problematiche collegate alle varie luminosità e rese dei mirini elettronici di questa o di quell'altra macchina, di questa o quell’altra marca. Ma non avendo avuto mai alcun termine di confronto, non avendo mai lavorato (avuto condizionamenti) con delle digitali, se non per qualche sporadico lavoro a colori, io non ho fatto altro che prendere in mano per la prima volta la dp e poi la sd quattro, guardarci dentro, non riscontrare nella visione seppur elettronica alcun problema e proseguire il mio lavoro. Non ho dovuto, in sintesi, rispondere(mi) ad alcuna domanda tipo ”…come ti trovi con questo mirino elettronico?” (sottinteso “..rispetto agli altri digitali che usavi prima..”) proprio perchè prima non usavo nulla. E, per dirla tutta, la visione di una grande formato o medio con il pentaprisma non ha proprio alcuna possibilità di paragone con un mirino di una digitale. Guardar dentro il pozzetto di un Hasselblad o anche solo nel suo pentaprisma in confronto al mirino seppur eccezionale di una digitale è come guardare un film al cinema con il widescreen o su uno smartphone che seppure grande come il “plus” di turno rimane pur sempre uno smartphone. Ciò detto io vedo e compongo perfettamente e comodamente attraverso il mirino della sd. Che sia mattina presto, sotto la neve, con il sole di fronte o alle spalle, a -20°C senza appannamenti di sorta o altre situazioni estreme; tutte, va da sé, largamente provate e vissute anche in tempi recenti. In genere le batterie delle fotocamere mirrorless non hanno una grande autonomia. Da fotografo di montagna (ambienti freddi, isolati, ecc..), come affronti il problema? Con grande filosofia e senza particolare stress. Fotografare con una sd è come utilizzare una medio formato, la quantità degli scatti prodotti è più o meno la stessa: qualche decina di scatti al giorno come se avessi 4/6 rullini 120 con l’Hasselblad. Quindi poco consumo di batterie che gestisco come prima gestivo i rullini. Se prima infatti avevo il mio sacchettino con i rullini al suo interno, ora esco con lo stesso sacchettino ma con all’interno le batterie che presumo possano servirmi nel corso della giornata e che poi puntualmente riporto a casa ancora piene. Sulle tre che ho nel sacchetto ( più quella in macchina), di base ne consumo due in totale. E al freddo la batteria tiene molto bene. In genere ti dedichi tu alla post produzione dei file e alla stampa o preferisci affidare il lavoro ad uno stampatore esterno? Non stampo direttamente seppure ormai conosca le basilari tecniche di sviluppo, stampa e relativi materiali. Devo per forza conoscere questi temi se voglio avere delle argomentazioni quando mi confronto con dei professionisti sulle mie necessità. Ho la fortuna di avere in famiglia un professionista dell’analogico che ho - diciamo così - “acquisito” in bundle con mia moglie quando mi sono sposato. Suo cugino infatti è un bravissimo e conosciuto artigiano del bianco e nero analogico con sede in centro a Milano. Con Andrea ( Lanzeni, Fototecnica 2 Elle), ho inziato a collaborare non appena ci siamo conosciuti e ormai sono quindici anni che lavoriamo insieme quando scatto in analogico. Lui conosce perfettamente il mio modo di fotografare, di scrivere; io il suo di sviluppare e stampare. Siamo in perfeta sintonia. Allo stesso modo il mio stampatore di riferimento per il digitale quando devo stampare per mostre importanti come le recenti al MART di Rovereto, ad Hannover, Amburgo e al CIFA di Bibbiena per il progetto Grande Guerra, è Massimilano Carraglia di FotoFabbrica a Piacenza. Stesso rapporto di Andrea, stessa sintonia. Una garanzia e una tranquillità poter fotografare sapendo che alle spalle hai qualcuno su cui poter contare, sapendo che quel qualcuno renderà agli occhi dell’osservatore esattamente ciò che tu volevi dire con quel tuo scatto.. In questo periodo stai lavorando a qualche progetto in particolare? Oltre ad aver messo finalmente online il nuovo sito www.albertobregani.com, che invito tutti a visitare (grande spazio alla parte fotografica e alla didattica), sto completando il mio nuovo libro che uscirà per la prossima edizione del TrentoFilmFestival (primi di maggio 2017) e che si intitolerà “La Luce della Montagna. Piccolo elogio dell’andar fotografando per cime e sentieri“ ( per Ediciclo Editore, collana piccola filosifia di viaggio - ndr). Circa 90 pagine formato tascabile, solo testo nessuna fotografia. Un semplice e spero interessante racconto personale per provare a portare nel mio mondo altre persone, appassionati di montagna e/o di fotografia; per descrivere cosa significa fare questa profesisone, trasmettere le suggestioni che provo ogni giorno, e altre piccole riflessioni e pensieri e considerazioni affinchè ognuno possa prendere il meglio da questo mio “andar fotografando” senza tempo e senza meta per cime e sentieri, e possa farlo suo, ognuno per come può, indipendentemente che si sia alpinisti, fotografi professionisti o semplici escursionisti con uno smartphone nella tasca della giacca. La montagna, come la bellezza, è a disposizione di tutti. Nessuno escluso. Basta saperla prendere, facendolo soprattutto in totale sicurezza, e rispettando e salvaguardando ciò che ci viene dato, per noi, ma soprattutto per coloro che verranno dopo di noi. www.albertobregani.com PS. ...ho terminato di rispondere alle domande di Damiano il 30 dicembre 2016. Nei giorni successivi, in vacanza, mi sono dedicato allo sci e a seguire gli allenamenti dei miei figli. Ho portato con me la SD 4 con il 50/100 e sono rimasto piacevolmente stupito da come anche in situazioni ( per lei) limite si sia comportata alla grande. Mai avrei pensato di utilizzare una SD quattro per la fotografia sportiva. Certo, ci ho messo un po’ a capire come rispondesse alla “velocità” e a prendere i giusti riferimenti; non ha i millemila scatti al secondo come hanno alcune altre, ben più adatte a questo tipo di fotografia, non ha l’autofocus più veloce al mondo (io uso comunuque il focus manuale), ma le sue foto dinamiche le ha fatte egregiamente, con uno spettacolare dettaglio sul soggetto e uno sfocato grandioso. Qui un esempio ( jpg ridotto del 50% dal jpg 100% e già ridotto di suo dal file iniziale). Oggi, 16 gennaio, ci tenevo a integrare questa mia intervista e a dirvelo ;-) |
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